Cuneo. Cinque di pomeriggio di lunedì 25 luglio. C’è il sole, l’aria è umida, la cappa calda mi avvolge mentre esco dalla redazione del giornale La Guida, dove lavoro. Cammino per il viottolo che sbocca su via Roma e mi incammino verso piazza Torino, per aspettare il mio vecchio amico L., che mi dovrebbe dare un passaggio fino a una festa a Boves.
Un centinaio di metri e sono arrivato al punto che avevamo stabilito per incontrarci. Alla mia destra la Prefettura, alla mia sinistra la sede della Polizia municipale e più in fondo la Questura.
Mi fermo sul gradino del marciapiede e gioco a stare in equilibrio su un piede. Sono un po’ rincoglionito dal caldo e non mi accorgo che, vicino a me, una donna sta parlando al telefono.
Qualche frase confusa che non capisco, poche parole sconnesse: “capisci”, “ho fatto così”, “cazzo”.
Presto attenzione levandomi la cuffietta scarica infilata nell’orecchio. Sento ancora qualche frase, questa volta più chiara: “è successo stanotte”, “nessuno mi ha aiutata”, “sono piena di graffi”.
Incuriosito, mi giro a guardarla con poca discrezione e troppa curiosità: sembra scossa. È una ragazza piuttosto bassa, magra, anche se i vestiti che indossa la fanno sembrare più abbondante: un paio di pantaloni da calcio da uomo, neri; un top troppo largo, arancione. È bionda, capelli a caschetto poco sopra le spalle, molto unti e raccolti con una pinza. Sembra sbattuta, trafelata, vestita a caso, come per un impegno che l’ha portata via di casa di corsa.
Penso: “Forse ha dovuto correre in prefettura per una questione burocratica. Forse sta perdendo la casa.”
La donna comincia a piangere. Con il palmo della mano si copre l’occhio sinistro e la fronte, mentre con l’altra mano regge il telefono, premendolo contro l’orecchio e dicendo:
“Papà l’ha scoperto, certo. Ha visto tutti gli ematomi sulle braccia, sulle gambe, sul collo. E l’occhio rosso” Poi singhiozza e continua: “Ha iniziato senza motivo, io stavo lì…no che non c’era. Marco l’avevo portato già da papà.”
Si asciuga le lacrime e comincia a camminare nervosamente ai bordi del marciapiede, forse per non farsi sentire. Riesco comunque a intendere alcune frasi: “Io fumavo”, “No che non gli ha mai dato fastidio che fumassi, anzi. Però lui si è preso male e adesso sono piena di graffi”, “Sì, stavo lì sul balcone e lui ha cominciato a picchiarmi”.
A questo punto si gira verso di me, che la stavo guardando imbarazzato e vergognoso per non aver saputo nascondere il mio sguardo indiscreto. Dall’altra parte del telefono qualcuno le dice qualcosa che attira la sua attenzione, forse una di quelle frasi incredule per una storia troppo cruda. Ritorna a non darmi importanza. Mentre si sta allontanando riesco a sentire: “Preso per i capelli…ciocca…schiaffi…mi fa male”
Comincio a riempire gli spazi bianchi di quella storia. Ipotizzo che si trovi lì perché ha appena sporto denuncia alla Polizia o in Questura e che stia chiamando la mamma per informarla di una litigata un po’ troppo accesa.
È da sola e questo mi riempie di tristezza. Spero che L. arrivi presto per togliermi da quell’imbarazzante posizione da ascoltatore involontario, ma allo stesso tempo voglio che tardi il più possibile, per sentire quanti più dettagli possibili di quel racconto. Quella della donna che sto ascoltando è davvero la famiglia infelice dell’incipit di Anna Karenina, quella che più è triste più mi interessa.
Dopo qualche minuto, la ragazza ritorna. “Sono uscita solo stamattina. Sì, sono andata da papà ed è successo un altro casino…” poi sento: “Il bambino…vedermi così…sangue, lividi.”
“Sì, ho deciso mamma, lo lascio.” Pausa di qualche secondo. “No, non ho mangiato niente, mi fa male. Solo una brioche che mi ha dato lui stamattina. Al pistacchio.”
Vicino al marciapiede passa un’auto, che copre la voce della ragazza. Mi giro per vedere chi c’è al volante, poi mi volto e cerco la donna con lo sguardo, ma non la trovo. Distolgo gli occhi e vedo il mio amico L. che arriva con la sua Panda.
Salgo in macchina un po’ angosciato per aver ascoltato da parassita quella storia violenta e non aver potuto aiutare quella donna picchiata, quella madre graffiata. Ne voglio parlare con L., che sono sicuro si indignerà con me e allora potrò trovare conforto. Io e lui condividiamo e ci confessiamo tutto, come fanno quelli che da bambini si usava chiamare migliori amici.
Dopo averlo salutato, gli indico con lo sguardo la donna al bordo del marciapiede.
“Sai, quella ragazza probabilmente è stata appena picchiata, credo dal ragazzo.”
“Perché?”
“Fumava in casa.”
“Allora ha fatto bene.”
Sandro Marotta