Torino, 12 maggio 2022.
Sono seduto in un bar di Piazza Carlo Emanuele II insieme a quattro mie amiche. Una di queste è S., viene da Padova ed è ospitata dalle altre per la settimana dell’Eurovision. Parlando del più e del meno, viene fuori che nei weekend S. lavora in una pizzeria per pagarsi gli studi e i viaggi:
“Mi trovo bene, è un posto tranquillo”- Ci vengono soprattutto famiglie con bambini o coppie.”
Per qualche ragione, sono in vena di domande e quindi le chiedo, in modo discreto, se sia mai stata molestata sul posto di lavoro. Non si tratta di curiosità, ma di una pseudo ricerca sociologica: “Vediamo se le statistiche sono giuste – penso – vediamo se è successo anche a gente che conosco da vicino.”
“Sì, è capitato.” – mi risponde lei – “Una sera sono andata a portare la carta dei dolci a un tavolo di una famiglia: marito e moglie, entrambi piuttosto avanti con l’età, con due bambini. Alla domanda “gradite un dolce” l’uomo mi ha risposto che no, non voleva nessun dolce, piuttosto qualcos’altro, qualcosa di mio…qualcosa…insomma, l’allusione al sesso era palese. Io ovviamente me ne sono andata e al posto mio è andato un collega.”
Di questa non appassionante storia, è la chiosa a colpirmi di più: “E io non ero vestita in modo provocante, o scosciato. Avevo il completo del locale: grembiule, maglietta e pantaloni lunghi.”
Realizzo che c’è qualcosa che non va: perché S. ha voluto giustificarsi precisando il suo abbigliamento? Mi viene in mente che nel caso in cui avesse indossato una gonna o un top, forse non avrebbe nemmeno ritenuto il commento dell’uomo una molestia. Semplicemente avrebbe detto che “sì, è vero che la battuta era fuori luogo, ma con il mio aspetto “provocante” la tentazione sessuale era comprensibile”.
Mentre rifletto, mi balza in mente una storia simile, quella di G., un’altra mia amica che lavora in uno chalet di montagna. Un paio di settimane prima mi ha raccontato di aver subito palpeggiamenti sul sedere mentre serviva ad un tavolo e di essere stata rimproverata dalla proprietaria del locale quando ha chiesto di poter indossare un paio di pantaloni al posto della gonna. Come S., anche G. mi ha sorpreso con la chiosa finale; vedendomi sconcertato al termine del racconto ha ribattuto, con il sorriso: “È così, ma non è niente di che, credo sia abbastanza comune. Alcune mie colleghe anzi dicono che sia un bene, perché è un servizio in più. Intendo dire: è una garanzia che il cliente tornerà. E alla fine vincono tutti, no?”
Ripercorrendo quel ricordo e collegandolo alla storia di S., penso che dalla psicologia sociale questo atteggiamento è definito auto-oggettivazione (Pacilli, 2014): si interiorizza lo sguardo dell’altro – il macho palpeggiatore e fischiatore – e tramite esso si legge tutto ciò che accade dentro e fuori di sé, fino a ritenere normali fischi, commenti o allungamenti di mani. Le mie amiche hanno interiorizzato questo codice e ne hanno dato prova sentendosi in dovere di specificare che no, non erano vestite “come delle poco di buono”. Come a dire: “è vero, è stato orribile, ma perché ero vestita in modo normale. Non come quelle con la minigonna che se la vanno a cercare.”
Davanti alla mia Leffe bionda, sono sconcertato. Non tanto – anzi non solo – per le due storie di S. e G., quanto per il fatto stesso di essere sorpreso. Perché le notizie sui giornali le leggo, i numeri li conosco, le statistiche anche. Ho anche scaricato l’ultima tabella Istat sulla situazione delle molestie sulle donne in Italia (https://www.istat.it/it/archivio/209107). So che ci sono state 8 milioni e 816mila vittime di molestie in Italia e l’ho ben presente, so recuperarlo anche quando sono in giro con degli amici e sto pensando ad altro, come in questo momento. Eppure sono comunque sorpreso e ferito. Davvero allora è capitato a persone così vicine a me? Non avrei dovuto saperlo, dato che ogni mese leggo l’articolone di Repubblica con tutte le statistiche possibili e immaginabili sulla violenza di genere?
Torino, 13 maggio 2022
Ciò che è successo ieri sera ha dell’incredibile. Continuo a dirmi che avrei dovuto essere preparato, era ovvio che S. e G. potessero rientrare nelle 8 milioni e 816mila vittime di molestie sessuali. Eppure è come se mi avessero raccontato il segreto del secolo.
Ci sto pensando da tutto il giorno. Tocco due volte lo schermo nero del cellulare, sono le 18,05. Lo guardo sfumare di nuovo nel nero e realizzo che la differenza non la fanno i numeri che conosciamo, ma le storie che ascoltiamo. 8 milioni e 816mila per me non sono mai state storie, con personaggi, luoghi e emozioni reali, ma solo numeri con cui non ho mai riso, scherzato, scambiato emozioni.
Stasera sono seduto davanti a un caffè e sotto gli occhi non ho più una birra, ma un libro di Alessandro Perissinotto, Raccontare. Lo apro e a pagina 32 trovo le parole giuste per spiegare a me stesso la sensazione di sorpresa di ieri sera: “[…]quando assume caratteristiche narrative l’informazione è in grado di creare emozioni, perché le emozioni rivelano problemi sociali molto più di quanto non facciano i numeri e le statistiche. Pensiamo a un numero. 6 milioni di ebrei uccisi dal nazismo sono un numero enorme, ma non ci sconvolge l’animo perché il nostro cuore non è progettato per accogliere tragedie così grandi. Per capire il dolore di sei milioni di ebrei ci basta una sola storia, quella di Anna Frank.”
I Diari che mi hanno ferito – non colpito, ferito, perché la ferita lascia dei segni, il primo di tutti è questo articolo – sono le storie di S. e G. Quelle due, e non 8 milioni, mi hanno fatto capire quanto le vittime di violenza siano intorno a noi, ogni ora di ogni giorno e siano ciascuna la chiave per iniziare a capire davvero la portata del problema. Perché noi non-vittime – ovvero noi maschi etero-cis – dobbiamo certo accorgerci delle azioni oggettivanti (Pacilli 2014) che quotidianamente compiamo verso le ragazze che ci circondano, ma per farlo abbiamo bisogno di essere disposti a interrogarci. E le domande ce le facciamo solo quando siamo feriti, quando entriamo in empatia con qualcuno. In altre parole, percorrendo una e una sola strada: chiedere di raccontare e poi ascoltare le voci reali delle vittime, faccia a faccia.
Mi rivolgo ora a chi mi legge: sii affamato di storie, invita al racconto chi ti circonda e fatti ferire. È questo il modo più efficace per invertire la tendenza, rendersi sensibili – dal latino sensus, da sentio, “comprendere” – e rendersi davvero conto che la piaga delle molestie sessuali riguarda tutti e tutte, in primis chi ti sta accanto. Di più: una storia di molestia, come tutte le storie, è sia di chi la racconta sia di chi la ascolta; è un foglio di carta dalle facce inseparabili che lega narratore e ascoltatore. E forse proprio il sottrarsi al nostro ruolo è la colpa primaria di noi maschi.
Sandro Marotta