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Ciò che inferno non è

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“Ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai”.

Dante scrive questo verso nel primo canto dell’Inferno. Il soggetto della frase è sottointeso: Dante parla di sé all’inizio della sua opera, affermando di voler raccontare la sua terribile esperienza nella selva oscura. Nonostante la difficoltà nel parlarne e nonché ne provi di conseguenza angoscia, il poeta propone la narrazione di quanto vide, per poter trattare in un secondo tempo del bene trovato in quel luogo.

Con “bene” Dante potrebbe indicare il soccorso inviatogli dal cielo per mezzo di Virgilio; ma a dire il vero, questo non accade propriamente nella selva. Forse dovremmo provare a riconoscerci nell’ “ i ” del verso citato all’inizio e lasciarci interrogare dall’autore per provare a comprenderlo. Cos’è dunque quel “bene” di cui parla Dante? O meglio quale è il bene che noi lettori, a distanza di secoli possiamo trovare tra i versi del poema dantesco?

Dante apre la Commedia in una condizione di estrema disperazione, in un periodo di profondo turbamento nel quale si sente vicino alla morte. Egli vuole farci sentire la sua paura. Dante si trova di fronte alla morte. E’ un uomo perduto, smarrito.
Egli si trova fermo nella selva, chiuso in sé, nella propria afflizione, in una condizione di staticità e inibizione, senza alcun tipo di prospettiva, condizione dalla quale pare non riuscire a liberarsi.

La disperazione e lo smarrimento in cui si trova Dante all’inizio della Commedia descrivono simbolicamente un’esperienza comune all’intero genere umano; come Dante e forse insieme a Dante, spesso, tutti noi, dobbiamo affrontare “acque perigliose” dalle quali sembra impossibile giungere “fuor del pelago a la riva” e troviamo difficoltà che ci assorbono completamente, situazioni difficili, dalle quali non si sa come ricominciare.
Un esempio di tale condizione può essere rappresentato dall’isolamento dovuto alla pandemia. Siamo stati costretti a stare chiusi nelle nostre abitazioni e, timorosi di lasciarci sfuggire questa parentesi della vita, ci siamo tormentati con pensieri relativi al tempo trascorso in casa e alla conseguente perdita di opportunità. Cosa potevamo fare? Apparentemente nulla, semplicemente rassegnarci, sederci sul divano ed aspettare di poter tornare a vivere. Ci siamo trovati in una condizione di immobilità e rassegnazione, in una fossa le cui pareti impediscono di vedere al di fuori.
Forse, a noi come a Dante, non “ convien tenere altro viaggio”? In questo senso il poeta rivolge a sé e ai suoi lettori un invito al MOVIMENTO, ci intima di non restare fermi, ma di modificarsi, di scegliere, evolvere e cercare un’altra possibile via di non lasciarci vivere nemmeno nella peggiore delle situazioni. E’ questo invito a rappresentare per me il bene dell’opera dantesca.

La vita è impastata di dolore, è vero, a volte può apparirci come un vero e proprio inferno, la cui condizione di sofferenza lo rende associabile a quello di Dante. E’ proprio nell’inferno che Dante inizia il suo viaggio. Le anime di questo luogo sono costrette a cammini eterni ed angosciosi o alla fuga senza riposo, un movimento caotico e incessante, spesso senza direzione oppure esse si trovano confinate in un luogo preciso, dal quale non possono allontanarsi. Nell’Inferno vi è dunque, nonostante il movimento del corpo di alcuni dannati, una condizione di staticità delle anime. Quelle che Dante incontra in questo luogo appartengono a coloro che hanno vissuto all’insegna di passioni e desideri dai quali sono stati completamente travolti e che hanno assorbito tutte le loro energie. Dante sottolinea che i veri responsabili del nostro male, spesso, siamo noi stessi ed è inutile attribuire colpe ad altri, il male è dentro di noi. Il nostro compito è quello di non lasciarci trascinare da esso. Si potrebbe dunque affermare che sono gli stessi uomini a porsi in questa situazione infernale che ne impedisce il cambiamento. Siamo forse noi stessi a creare gabbie dalle quali non riusciamo più ad uscire anche se la porta è spalancata, poiché in balia delle nostre emozioni peggiori. Rabbia, odio, cupidigia, avarizia, superbia spesso fanno perdere di vista tutto il resto.

Le anime dannate si dimostrano ancora profondamente aggrappate al loro agire terreno. Non sono pentite, non comprendono, sono ancora incatenate alle loro convinzioni e non vedono null’altro. Non c’è possibilità di movimento, di evoluzione per loro nell’Inferno.

Non so dire se dopo la vita esista o meno un Inferno come quello immaginato da Dante, ma penso che alcune delle sue dinamiche siano visibili nella vita di tutti i giorni, poiché l’Inferno è qui ed ora. Non mi piace però pensare ad un Inferno terreno o ultraterreno che sia, come quello dantesco, in cui si parla di colpe e punizioni eterne, in cui non vi è spazio per la speranza, per il cambiamento, in cui non si possa in nessun modo migliorare e capire. Preferisco pensare ad un Inferno, ad una realtà in cui chiaramente il male esiste e si respira ogni giorno, ma in cui anche se si è agito in modo sbagliato resti comunque aperta la possibilità di poter crescere, comprendere, imparare. Dobbiamo però essere disposti a farlo.

Italo Calvino nella sua opera “Le città invisibili” afferma:

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare, e dargli spazio.”

Che cosa attorno a noi, nella nostra vita, non è inferno? Siamo in grado nei momenti più bui di riconoscere cosa non lo sia? E siamo capaci infine a volte di urlare come Dante un “Miserere di me”? Com’è bello questo grido. Quanto è importante capire che spesso abbiamo bisogno di un aiuto per cambiare, accorgerci che c’è una mano tesa davanti a noi e afferrarla, che abbiamo bisogno di una guida per metterci in cammino.

Dal mio punto di vista, tutti nella vita abbiamo bisogno di uno o alcuni “Virgilio”, ossia mezzi, ma soprattutto persone, che siano i nostri punti di riferimento, che ci aiutino nei momenti di difficoltà e che ci guidino in questo buio inferno, ricordandoci lungo la strada quale sia il cammino. “I Virgilio” non si sostituiscono a noi, ma ci danno gli strumenti per continuare ad andare avanti e comprendere i meccanismi e le caratteristiche di ciò che ci circonda . Se riusciamo a trovare delle guide, dei punti saldi che siano essi un genitore, un amico, una passione come ad esempio la letteratura, lo sport, la musica ecc. , avremo nelle nostre mani gli elementi per poter pensare liberamente, per poter arrivare a formulare una nostra opinione sul mondo e continuare ad andare avanti in modo costruttivo.

Vorrei concludere con alcuni versi della poetessa W. Szymborska che, a parer mio, possono ben esprimere il concetto di “non inferno”, spero che voi troviate il vostro e che possiate magari esserlo per qualcun’altro.

Farsi contagiare

 

solo dagli inquieti, dai poeti,

 

dagli acrobati del possibile,

 

dagli smaniosi,

 

da chi non vede l’ora.

 

Se non ne conosci nessuno,

 

cercali.

 

Di gente che vuole vivere

 

è pieno il mondo.

Anna Paruzza

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