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Il Popolo che mi insegnò a sedermi sul vento

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Ho sempre voluto raccontare questa storia, narrare l’esistenza di un popolo sconosciuto ai più,  mostrare l’esistenza della più grande muraglia del mondo dopo “La grande muraglia cinese” e spiegare cosa significa “sedersi sul vento”. L’ho sempre voluto scrivere ma la complessità del discorso politico-sociale mi ha sempre trattenuto dal farlo. Tuttavia, la pandemia mi ha regalato molto tempo per pensare e per ricordare i momenti del mio passato per cui oggi devo ritenermi fortunato. Uno di questi risale al 2009 quando, sopra ad una duna nel Deserto Lunare del Sahara, mi lasciai cadere all’indietro ed il vento mi sostenne, quasi a volermi fare da sedia su quell’infinito mare di sabbia. Per questo oggi voglio raccontare la storia di un popolo che dal deserto non ha preso solo il nome ma anche l’aspetto, il carattere e soprattutto l’inesorabilità; sto parlando del popolo Saharawi e della fortuna che ho avuto ad incontrarli.

La loro storia inizia il 27 Febbraio del 1976, anno in cui gli spagnoli si ritirarono dalla colonia di cui erano in possesso nel territorio sottostante al Marocco, con la proclamazione della RADS (Repubblica Araba Democratica dei Saharawi) da parte del fronte Po.Li.Sa.Rio (Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y o de Oro), il successore del Fronte di liberazione del Sahara, gruppo armato di guerriglia che combatteva per la liberazione del territorio del Sahara Occidentale contro le forze di Spagna, Marocco e Mauritania. Con l’abbandono delle colonie dettato dall’Onu, la spagna abbandonò i territori desertici e in seguito venne firmata una pace tra la RADS e la Mauritania sancendo la fine delle ostilità ma l’inizio dell’esilio. Infatti, il Marocco non era della stessa idea di sancire una pace con i berberi del deserto e iniziò una lenta ma inesorabile costruzione di un muro della lunghezza di 2700km che attraversava l’intero deserto in lunghezza. La sua funzione, stando al governo Marocchino, serviva per proteggersi dagli attacchi del fronte Po.Li.Sa.Rio ma la RADS affermò che il suo vero scopo era quello di impossessarsi delle maggiori risorse del territorio, le miniere nel deserto e le coste pescose sull’atlantico, tagliando completamente l’accesso ai Saharawi. Ad oggi, la RADS ha abbandonato la lotta armata in favore di una risoluzione diplomatica e attende ancora il referendum garantito dalla legge delle Nazioni Unite per l’autodeterminazione dei popoli per tornare in possesso dei territori dove vivevano i loro antenati.


Una storia che, per certi tratti, li fa sentire “gemelli” del popolo palestinese del quale condividono la bandiera. La causa Saharawi è appoggiata dalla comunità europea, in particolare da Spagna ed Italia, e dall’Algeria nei cui territori si sono rifugiati gli sfollati dalla guerra e i nomadi, stabilendo come “Capitale” la città algerina di Tindouf.

Ma cosa c’entra un ragazzo, allora tredicenne, originario di Borgo San Dalmazzo con un popolo che vive in uno dei luoghi più inospitali della terra?
Nel 2009 la Re.Co.Sol (Rete dei Comuni Solidali) di cui anche Borgo San Dalmazzo fa parte, inviò una delegazione sul Territorio del Sahara Occidentale per osservare e decidere quali interventi sarebbero stati necessari per aiutare un popolo in difficoltà a sostenersi in un territorio così impervio come solo il Sahara può essere. Fortuna volle che mia madre, allora Assessore per il nostro comune, fosse parte di questa spedizione e mi portò con sé.

Arrivammo con l’aereo a Tindouf nel sud dell’Algeria, alle due di notte e due Jeep ci caricarono e si inoltrarono nel deserto mente le luci della città lentamente sparivano dietro di noi lasciando posto ad una oscurità totale, il nero assoluto. Dopo 2 ore e mezza di viaggio ci dissero che eravamo arrivati. Era notte fonda, un’oscurità così densa che facemmo fatica a scendere dalla Jeep, non c’era una luce nel raggio di centinaia di Km e dovevamo tenerci per mano per non perderci. Non voglio mentire, ero abbastanza spaventato ma poi la voce di uno dei miei compagni dietro di me sussurrò una frase: “Alzate la testa”. Guardai in alto e ciò che vidi non è descrivibile a parole. Era come se l’oscurità della notte non intaccasse il cielo, pieno com’era di stelle da sembrare quasi completamente bianco. La Via Lattea sembrava una strada che percorreva l’intero firmamento. Guardando quello spettacolo ogni paura che avevo svanì. Il mattino dopo ci alzammo ed uno stuolo di tende verdi e case di mattoni dai colori chiari sparse per tutta la piana di sabbia si parò davanti a noi mentre il sole illuminava le bianche dune che ci circondavano. 
Nei giorni successivi girammo scuole, orti e musei, conoscemmo le personalità politiche del popolo Saharawi e ci facemmo raccontare la loro storia mentre i nostri occhi si riempivano dei colori dei loro abiti, della sabbia portata dal vento e dalla caparbietà che questo popolo mostrava dinnanzi alle asperità. Qualche giorno dopo vollero mostrarci il famoso “Muro” che segnava la loro prigionia nel deserto. Ci mettemmo in viaggio attraverso il Sahara e durante una delle pause per la preghiera del nostro autista, soprannominato simpaticamente “Jalla” (“Presto!”, in Arabo), ci inoltrammo ad esplorare un po’ quel territorio sconfinato chiamato Il Deserto Lunare a causa del ferro di cui è ricco che dona un colore grigio/marroncino a tutte le dune. Il vento era forte; salimmo su una duna un po’ più alta per osservarci intorno. Jalla ci raggiunse ed arrivato in cima si lasciò andare all’indietro, contro vento, ma non cadde, semplicemente si sedette sul vento che soffiava talmente forte da tenerlo su. Lo copiammo e fu in quel momento, mentre il vento mi soffiava alle spalle facendomi da sedia ed il deserto del Sahara si estendeva sotto ai miei piedi, che capii perché quel popolo stava ancora lottando dopo quasi 40 anni di vita nel deserto: perché nessuno può capire meglio il concetto di libertà di un uomo che nasce, vive e muore nella totalità del nulla come può essere il deserto. La riconquista dei loro territori non è una mera questione economica o pratica ma è radicata nelle persone che vivono in mezzo al mare di sabbia come un’identità a cui vogliono tornare per ricominciare ad essere un popolo unito con un territorio proprio.

Alla fine, la Re.Co.Sol finanziò delle nuove cisterne per l’acqua che fossero in grado di resistere all’usura della sabbia e del vento ma quello che loro ci donarono fu molto più prezioso: ci insegnarono a sederci sul vento, con il mondo sotto di noi. 

Lorenzo Cavallera

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