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Il sacro e il profano: quando la società determina ciò in cui crediamo

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Il sacro e il profano sono noti a tutti. Ognuno di noi sa cosa rientra nella sfera del venerabile e cosa invece ne è estraneo. Ma da cosa deriva questa distinzione? Chi l’ha imposta? E perché siamo convinti dell’esistenza di queste categorie? 

Prima di tutto, è necessario specificare che le categorie di sacro e profano a cui si fa riferimento vanno al di là delle pratiche religiose. Basti pensare a quanti simboli della nostra società secolarizzata sono considerati, in qualche modo, intoccabili. Per fare un esempio: se vedessimo un uomo sputare sulla bandiera italiana, chi di noi non avvertirebbe un minimo di stupore, come se quello avesse commesso qualcosa di blasfemo, anche se la bandiera non rientra nei simboli di una religione particolare?

Un possibile significato da attribuire a queste due categorie è illustrata da Èmile Durkheim, sociologo francese attivo negli ultimi anni dell’ ‘800 e i primi del ‘900.  

Nelle linee generali della sua teoria sociale, Durkheim sostiene che la società sia qualcosa di più della somma dei singoli individui e delle loro coscienze. È piuttosto un’entità che opera con meccanismi oggettivi su di noi e sui nostri desideri. In questa prospettiva, la coscienza del singolo individuo è fortemente condizionata dalla società di cui fa parte, che più o meno esplicitamente ne determinerà i sogni, le aspirazioni, i pregiudizi, le paure e, appunto, i concetti di sacro e di profano. 

Queste due categorie, quindi, non sarebbero stabilite da ognuno di noi secondo il nostro sentimento, ma imposte dalla società stessa. 

Nella teoria sociale del sociologo francese, ogni esperienza singola è sempre preceduta da un preconcetto collettivo, appartenente alla cosiddetta coscienza collettiva, ovvero l’elemento che fa da tramite tra singolo e società. 

Per capire il livello di condizionamento che il contesto sociale opera su di noi, si può citare il suo scritto del 1897 intitolato “Il suicidio. Studio di sociologia”. Emerge, qui, l’idea che l’atto di togliersi la vita non è, come si potrebbe pensare, determinato solo da condizioni psicologiche individuali, ma anche (e soprattutto) dalle condizioni e dalle influenze sociali. Più un individuo è inserito in una società, più subirà le sue influenze, comprese quelle negative.

La tesi che interessa, in questo frangente, è quella che riguarda la religione e i riti. In “Le forme elementari della vita religiosa” Durkheim spiega che il concetto di sacro, a ben vedere, non è un elemento come tanti della vita sociale, ma rappresenta la società stessa. In altri termini: in occasione di ogni rito, per esempio una messa, tutta la collettività si riunisce; di conseguenza, l’esistenza di questa occasione sacra è il “collante” del nostro gruppo, è ciò che ci fa stare insieme. La divinità che in questo rito si adora, quindi, non ha nulla a che vedere con la dimensione religiosa. Ciò che si venera, in realtà, è la società stessa, cioè l’entità che ci ha riuniti insieme quel determinato giorno. 

Ma Durkheim va oltre e sostiene che il rituale che un individuo compie non è determinato dalla sua fede, al contrario: è la sua fede che è determinata dal rito. Detto altrimenti: non pratichiamo un rito perché crediamo in qualcosa, ma crediamo in quel qualcosa proprio perché prendiamo parte a quel rito. 

La spiegazione di questo concetto è semplice: in occasione di qualsiasi occasione di aggregazione umana (una messa, una festa, un matrimonio, una protesta politica) si crea “un’effervescenza collettiva” come la definisce il sociologo. In questa situazione, infatti, tutti i partecipanti si sentono pervasi dall’eccitazione, dall’entusiasmo, dallo spirito di comunità che li rende consapevoli e fieri di essere parte di un gruppo. Proprio grazie a questo sentimento di effervescenza colui che partecipa al rito in questione sarà portato a riconoscersi nella collettività e quindi a sposarne i valori e i principi culturali, sociali e religiosi.

È importante ricordare che questi meccanismi esulano dall’ambito religioso e possono essere osservati anche nel contesto sociale. Per provarlo, si pensi alle manifestazioni “No vax” e “No mask”. Come tutte le proteste in piazza, possono essere considerate come dei veri e propri riti, in cui una collettività che condivide le stesse visioni sociali e “scientifiche” si riunisce. C’è anche l’effervescenza collettiva e in queste occasioni è palpabile camminando tra i partecipanti. Per provare ciò che si è detto prima, e cioè che è il rito che stabilisce in cosa crediamo e non il contrario, basta pensare alle interviste, ormai famose, dei protestanti “no vax”: molti di questi personaggi sostengono dottrine assurde, impensabili, irrazionali e quando vengono smentite dal giornalista di turno essi stessi svelano come stanno le cose. 

Si può notare che moltissimi di loro non riescono a spiegare perché nei vaccini ci sono i feti morti, non trovano alcuna argomentazione valida per sostenere l’avvento di un nuovo ordine mondiale guidato dai Savi di Sion.  

Tutto questo sarebbe strano se avessero davvero fede in ciò che sostengono, se credessero davvero nella “divinità” che adorano (in questo caso la protesta contro il presunto complotto sanitario). 

La verità è che loro stessi non ci credono: sono in preda dell’effervescenza collettiva, dal sentimento appagante ed eccitante di essere parte di una collettività e per questo sostengono in modo incondizionato le ideologie di quest’ultima, non avendo l’interesse ad applicare alcun senso critico. 

In linea con la teoria sociale di Durkheim, si può dire che è con il rito di scendere in piazza che le persone credono in determinati concetti (e non viceversa); non è la fede in quelle ideologie a spingere le persone alla protesta, ma la società e le sue forze persuasive.

Questo meccanismo in apparenza paradossale si può riscontrare in moltissime occasioni “sacre” per la società, si pensi a quando si canta l’inno nazionale o si celebra la giornata della memoria o si prende parte al corteo di un Friday For Future: chi non è mai stato percorso da un brivido di effervescenza e si è sentito, almeno per un momento, fiero di appartenere a un gruppo unito e quindi anche più incline ad accettare le sue ideologie? 

In ultima analisi, Durkheim non ci insegna che bisogna essere atei o disillusi nei confronti di qualsiasi occasione di aggregazione sociale o religiosa; piuttosto ci invita a riflettere criticamente: crediamo davvero in ciò che si sta dicendo intorno a noi o siamo in preda a un’effervescenza collettiva? Partecipiamo a un rito perché abbiamo fede, o abbiamo fede perché partecipiamo a un rito? 

 

Sandro Marotta

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