Tra i tantissimi aspetti su cui si può riflettere in “1984” di George Orwell, il ruolo della scrittura all’interno del romanzo è tra i più affascinanti. Spesso la presa di coscienza del protagonista oppresso, Winston, è affidata ora Julia, ora al pensiero, ora alla riflessione, ma con più attenzione ci si rende conto che l’impulso alla ribellione può essere visto come conseguenza dell’attività di scrivere.
Come tutti i classici, pur essendo stato scritto decine di anni fa, “1984” rivela qualcosa di noi e del nostro mondo. Forse perché i grandi libri vanno così in profondità nell’indagine dell’uomo da individuare ciò che non cambia mai. L’impulso alla scrittura è uno di questi “universali”. Esso ha a che fare con l’arte del creare un racconto, ovvero una piccola “magia” (come l’ha definita Baricco) che parla di chi l’ha scritta, dato che l’Uomo non può fare a meno di riferire ciò di cui parla a sé, anche quando questo qualcosa è astratto.
In un mondo dove il racconto orale, persino quando è tra sé e sé, è censurato, Winston sente la spinta “magica” che lo porta alla scrittura. Prima acquista un’agenda, di nascosto, senza sapere neanche perché, poi inizia a scrivere delle parole, per poi farne il suo diario personale. In effetti, se si chiedesse a uno scrittore perché ha iniziato, probabilmente direbbe: “Senza motivo, sentivo di volerlo fare”. È questa vibrazione ad animare Winston, che potremmo definire con Roland Barthes uno scrittore e non uno scrivente. Cioè uno che ritiene la scrittura un modo di vivere da usare per interrogare il mondo e non un semplice incastro funzionale di parole; scrivere per Winston è un verbo intransitivo.
In questa pratica esistenziale egli trova la propria voce autentica, quella che il Partito non può censurare (almeno non subito). Winston però è anche uno di noi: è un bambino che scrive sul suo diario i dubbi della vita, è un prete che interroga Dio sul suo taccuino, è un adolescente autore di poesiole deprimenti che vuole tenere nascoste.
Nel romanzo, la scrittura è vista anche come catalizzatore di persone: basti pensare al capitolo in cui si descrive di come la Confraternita (l’associazione dei ribelli) si tenga unita facendo leggere ai propri affiliati il libro sovversivo. Le parole impresse sulla carta diventano il collante di un gruppo, un deposito di pensiero collettivo, uno strumento di aggregazione e di fede. Legittimano l’adesione alla Confraternita, donano credibilità, sono come il manifesto di un gruppo politico che fino ad allora aveva solo bisbigliato e che ora può urlare.
“1984” è la dimora di un tipo di scrittura mitica, intendendo il mito come uno strumento di congiunzione tra due opposti. Vediamo meglio: quando Winston scrive, al riparo dagli occhi e dalle orecchie dello schermo (che, come il Panopticon, plasma il comportamento senza agire), è evidente la contrapposizione silenzio/espressione. Il televisore parla in continuazione e lo spettatore deve stare zitto. L’impasse tra questi due poli, che in Oceania sono sinonimi di vivere o morire, è risolta dalla scrittura; perché essa è espressione silenziosa, è pensiero urlato che non fa rumore e cammina silenzioso. Per questo il Partito la teme: perché non si vede, perché non è corpo su cui esercitare il potere. Perciò il racconto è a tutti gli effetti, in “1984” come nella vita, un’azione politica sovversiva contro un controllo biopolitico.
Ma c’è anche un’ulteriore forma di consapevolezza più sottile e interiore. Per uno scrittore (inteso à la Barthes) prendere la matita in mano aiuta a ragionare, a porsi dei dubbi, a mettere in discussione l’autorità. Questo accade prima di tutto nella forma: l’autore sa che deve frenare il proprio ego, mettere da parte le frasi fatte, il senso comune, deve reinventare ogni volta il modo in cui pensa e far tacere la voce dello “scrivi come parli”. Questo metodo applicato per regolare l’espressione finisce inevitabilmente per modellare anche il contenuto.
Un altro aspetto importante in “1984” è la non scrittura, che si rivela essere un mezzo potente per il Partito stesso. Ciò che è scritto, infatti, può essere affrontato, discusso, ha un indice di manipolazione più basso della parola (benché non nullo, tanto che l’occupazione della maggior parte dei membri del Partito è modificare i documenti che riguardano il passato). Per questo le leggi sugli psicoreati non sono scritte, ma rimangono nella nube dell’incertezza, nella zona grigia tra il lecito e l’illecito; un cittadino che non è certo delle regole in vigore in una società non può che vivere nella paura.
Allo stesso tempo invece ciò che è scritto dal Partito è il cemento della sua legittimazione politica. Spesso Winston si chiede se le cose siano sempre andate così, se la fabbricazione di scarpe sia davvero aumentata o se l’Oceania sia sempre stata in guerra con l’Estasia, e il suo dubbio è risolto in modo incontrovertibile dalle prove impresse nero su bianco. La parola sul foglio, che sia vera o no, rimane. A ben vedere, anche se tutti i regimi autoritari del passato hanno condannato la scrittura libera e incondizionata, nessuno di essi è riuscito a fare a meno del potere della pagina. Di più: anche i leader più attivi nella censura hanno trovato una via per esprimere se stessi e la loro opinione proprio con carta e penna (si pensi al “Mein Kampf” di Hitler).
In 1984 la scrittura è anche il mezzo attraverso cui l’uomo ribelle ha la conferma di non essere pazzo. Orwell, con una raffinata riflessione sulla lettura come storia universale, cioè sui libri che sanno chi siamo nonostante non ci conoscano, scrive: “Il primo capitolo, come il terzo, non gli aveva detto nulla che già non sapesse, limitandosi ad esporre in maniera sistematica una materia che gli era nota. Dalla lettura, tuttavia, aveva tratto un’ulteriore conferma di non essere pazzo.” Conferma, questa, che gli provocherà poche righe dopo “un senso di forza e di sicurezza.”
Ciò che leggiamo spesso ci fa sentire meno soli. Ci fa stringere la mano con persone come noi, con i loro difetti, con le loro debolezze, con i loro modi di pensare che sono i nostri, ma appaiono più chiari proprio perché sono scritti. Quante volte ognuno di noi ha pensato “Io sono solo, e loro sono tutti” per poi leggerla a pagina 62 di “Ricordi dal sottosuolo” di Dostoevskij e sentirsi meno abbandonato?
Infine, nella parte finale del romanzo, viene detto che l’unica soluzione per guarire dagli psicoreati è annullare il proprio io, fondersi con il Partito in modo tale da diventare il Partito; così da non essere più un singolo individuo, ma un gigantesco e immortale Uno.
Ebbene, la scrittura trasforma questo meccanismo di dissociazione usandolo come strumento di immortalità. Quando scriviamo, che sia un romanzo fantasy o un’autobiografia, ci stacchiamo dal nostro io, dalla nostra persona fisica per diventare una voce, una stringa di parole, un ritmo. Scegliamo i termini che poi scriviamo, ma in qualche modo essi sono altro da noi: se dico “io” in questa pagina, sto creando un alter ego del me della vita reale; un me migliore o peggiore, ma potenzialmente immortale allo stesso modo del Partito. È questo il segreto di chi scrive (e di chi legge): avere la possibilità di vivere più vite, di essere in Oceania un giorno e a Waterloo un altro, per mezza giornata un assassino e cinque minuti dopo un frate. L’ultimo insegnamento che ci dà la testimonianza di “1984” è proprio questo: tutti noi, in quanto scrittori e lettori, possiamo fabbricarci con le mani gli strumenti per vivere per sempre.
Sandro Marotta