Resistenza.
Sono cresciuto con questa parola. Mio nonno paterno, Edoardo, nel 1943 aveva 19 anni. Oggi a quell’età, pandemie permettendo, si esce con gli amici e si festeggia, si iniziano le prime storie d’amore serie e si sceglie una carriera universitaria o lavorativa che ci terrà impegnati per gli anni a venire. Allora no. Nel 1943, a 19 anni, andavi in guerra a combattere. Qualcuno lo faceva per la patria, qualcuno per la famiglia che aspettava a casa e altri per una parola che negli anni a seguire sarebbe diventata talmente comune da rendere il suo originale splendore solo un abbaglio: Democrazia.
Aveva 19 anni mio nonno quando, scappando dal campo di prigionia di Nizza con altri studenti di Cuneo, si trovò sotto il comando del Comandante Cosa della Brigata Partigiana della Valle Pesio. Non c’è più tempo per essere dei ragazzi quando hai un fucile in mano e un nemico davanti agli occhi; si può solo diventare adulti troppo in fretta e sperare che basti per tornare a casa. “Il gruppo degli studenti”, così venivano chiamati. Per due anni passarono la loro vita in montagna a combattere contro tedeschi, fascisti, il freddo e la neve. Due anni a combattere per donare ai loro figli e nipoti un futuro degno di tal nome e per portare a casa la pelle.
Oggi si è creato un mito attorno alla figura dei partigiani; qualcuno li osanna come eroi e altri li insultano come se fossero banditi ma la verità, come sempre, sta nel mezzo. Erano uomini in guerra, con le loro paure e le loro speranze, i loro attimi di gioia e le lacrime per un compagno caduto. Nient’altro che questo.
Quando parliamo di resistenza non stiamo solo additando un periodo storico o un movimento di uomini che combatterono contro il nazi-fascismo ma stiamo parlando di uomini e donne che Resistevano soprattutto a sé stessi! Quanto può essere difficile resistere nella neve per due inverni? Quanto devono essere forti le tue convinzioni e le tue idee per sopportare la quotidianità della morte e del dolore? Quanto deve resistere un uomo per considerare, alla fine di tutto, quello che ha ottenuto come una vittoria?
Allora ero piccolo, non capivo il valore dell’eredità che quell’uomo mi stava lasciando. Sono il più piccolo della famiglia, sia tra i fratelli che i cugini, e passavo spesso il sabato e la domenica dai nonni, in quella bella casa in Viale degli Angeli. Osservavo quel vecchio austero, con quella barba bianca, che sbucciava una mela con una tale cura da farti percepire il valore che quel frutto aveva per lui, offrendotene poi uno spicchio, sbucciato talmente bene da sembrare un’opera d’arte. Non mi parlava mai della guerra ma mi mostrava a cosa avesse portato. Ricordo le gite nei fine settimana su al Monumento ai Partigiani alla Certosa di Pesio, costruito da lui e suo padre dopo la guerra, e di come io, curioso ed ingenuo, gli chiedevo chi fossero quelle persone il cui nome era scritto in maniera imperitura nella pietra e del perché fossero così importanti. Iniziò allora la mia eredità: conobbi la vedova del Comandante Cosa, il suo amico e capo brigata, qualcuno dei suoi compagni e a tutti loro mi presentava con un sorriso come “l’ultimo arrivato della famiglia”. Ero solo un bambino e non capivo quanto orgoglio ci fosse in quelle parole. Quanto il mio solo essere al mondo fosse per lui il segno che avevano effettivamente fatto la differenza, che avevano combattuto e sofferto per qualcosa di buono. Oggi me ne rendo conto e rimpiango di non potergli più chiedere di raccontarmi la sua storia ma mi restano i ricordi e l’affetto di quell’uomo che ammiravo così tanto e, cosa ancor più importante, mi resta l’eredità che mi ha lasciato: testimoniare. Perché se oggi posso scrivere su queste pagine, se posso dire come la penso senza paura di ripercussione alcuna, se posso essere chi sono e scegliere, a 19 anni, di non andare in guerra lo devo a lui e ai suoi compagni. Questa sarà la mia Resistenza: la scelta di far resistere all’usura del tempo e della memoria le idee che hanno creato questa nazione e che ci hanno regalato il più lungo periodo di pace che l’Europa ricordi.
Resistenza non è un periodo storico o un modo di definire gruppi di giovani, è una filosofia. Ancora oggi ci tocca resistere perché ancora oggi c’è chi vuole privare dei diritti fondamentali delle minoranze, come se così facendo potesse diventare egli più forte. Guardiamoci intorno: omosessuali a cui viene negato il matrimonio e la famiglia, immigrati a cui viene negato soccorso mentre affogano o senzatetto a cui viene impedito di coricarsi sulle panchine per non dormire per terra. Vengono definite “Degrado” la povertà e le difficoltà che i ceti sociali più bassi di una città affrontano e come si pensa di migliorare la situazione? Togliendo il posto ai senzatetto per dormire, come nel caso del MoViCentro della stazione di Cuneo, chiudendo e togliendo le case altrimenti vuote a chi ne usufruisce invece che utilizzare il modello Riace proposto da Mimmo Lucano che è valso l’interesse della comunità internazionale. E la possibilità per gli omosessuali di creare una famiglia? Ci rifugiamo nella distinzione tra “naturale” ed “innaturale” per mascherare il pensiero retrogrado del nostro paese rispetto ad un argomento ormai appartenente al passato negli stati del Nord Europa. Come vedete ancora oggi ci sono ottimi motivi per non dimenticare cosa significa “Resistenza”.
Quindi, per concludere, rinnovo il mio invito a ripensare alla resistenza non come appartenente al passato ma come una preziosa eredità che ci è stata lasciata e che, probabilmente, anche noi dovremmo lasciare ai nostri figli.
Buon 25 Aprile a tutti.
Lorenzo Cavallera
Come zio di Lorenzo e genero del nonno Edoardo da lui citato non posso che essere decisamente fiero di mio nipote. Io stesso, figlio di un partigiano della medesima formazione, sottoscrivo le sue parole e l’impegno alla coerenza da vivere più che mai nel nostro quotidiano.