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PROMEMORIA AUSCHWITZ

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Sono Beatrice, studentessa del Liceo Classico di Cuneo.

Sono rimasta impressionata, sconvolta, dalla visita didattica ad Auschwitz.

Dopo un lungo viaggio in treno sono giunta, insieme ad altri 811 ragazzi piemontesi, a Cracovia. E’ una città incantevole, ricca di storia e molto accogliente. In ogni angolo c’è qualcosa da scoprire, tra le strade di questa città è impossibile annoiarsi. 

A pochi chilometri da questa stupenda città si trova Auschwitz, un nome purtroppo conosciuto da tutti. 

Perché quando si parla di Shoah Auschwitz è il primo nome che ci viene in mente? Perché questo campo è considerato così importante? Auschwitz, formato da Auschwitz I, Birkenau, Monowitz e 45 sottocampi, è il più grande campo che il III Reich abbia creato e costituisce una particolarità all’interno del sistema concentrazionario nazista: è una via di mezzo tra un campo di concentramento e un campo di sterminio. 

Siamo arrivati ad Auschwitz con un preciso scopo: capire insieme perché si sia arrivati a progettare questo campo e da dove sia nato questo odio così profondo verso Rom e Sinti, omosessuali, Testimoni di Geova e, soprattutto, Ebrei. 

Hitler ha avuto la strada spianata, sotto questo punto di vista. Non ha dovuto far altro che alimentare un odio già presente in tutta la comunità europea. Nemmeno l’idea dei ghetti è stata sua: il primo ghetto ebraico risale al 1516, a Venezia. 

Nel museo della fabbrica di Schindler, visitato il giorno prima di recarci ad Auschwitz, c’è un lungo corridoio che simula il Ghetto di Cracovia. E’ stretto, buio, angusto. Nelle orecchie avevamo la voce di una testimone, una ragazzina poco più piccola di noi: “Nel ghetto mancano lo spazio personale, l’intimità, la libertà, l’aria”. Era come stare chiusi in una scatola.

Il primo passo verso l’Olocausto è il Mein Kampf, “La mia battaglia”, il libro scritto da Adolf Hitler. Contiene tutti gli ideali del nazionalsocialismo, portati avanti da Hitler per tutta la sua carriera politica. Fondamento di questi ideali sono: 

– il Pangermanesimo: l’unificazione di tutti i popoli germanici sotto un unico Capo di Stato, e l’acquisizione di uno spazio vitale per ospitare tutti i tedeschi. E’ limitante pensare ai tedeschi soltanto come gli abitanti della Germania. C’erano, infatti, popolazioni Germaniche sparse in tutta Europa e la ricerca di un’unica identità non è un’idea nata con Hitler: egli ha semplicemente saputo sfruttarla al meglio per i propri scopi. 

 

– L’esaltazione della razza ariana: il nazionalsocialismo affermava che gli esseri umani fossero suddivisi in razze e che la razza principale fosse quella tedesca, che doveva essere preservata nella sua integrità. Il razzismo era diffuso da secoli, ma è il nazismo che, per la prima volta, lo rende scientificamente ufficiale, “grazie” all’opera di molti scienziati del III Reich. Chiunque non rientrasse nel canone fisso dell’uomo ariano forte e in salute doveva essere eliminato.

– L’antisemitismo: se la “razza ariana” era considerata la più degna, la “razza ebraica” era considerata inferiore. Gli ebrei erano il concentrato di tutti i mali del mondo e tramavano contro il popolo tedesco. La discriminazione nei confronti degli ebrei affonda le sue radici nell’Antica Grecia e nell’Antica Roma (nella forma dell’antigiudaismo) e ha avuto grande sviluppo durante il Medioevo. Erano una minoranza facilmente identificabile, il capro espiatorio perfetto nei momenti di difficoltà. 

– Il riscatto tedesco: la Germania, umiliata durante la prima guerra mondiale e in preda alla crisi, aveva bisogno di un uomo forte al potere che ristabilisse l’ordine e riportasse la nazione allo splendore di un tempo. 

Come potevano le convinzioni folli di un uomo qualsiasi diventare l’idea di un’intera nazione? Hitler ha lavorato per gradi. Non avrebbe ottenuto particolare consenso se, da un giorno all’altro, si fosse affacciato dal suo balcone a Berlino e avesse proclamato al popolo le sue reali intenzioni. Ha lavorato sulla mentalità delle persone. Ha allontanato gli ebrei dalla società con gradualità, in modo che le persone iniziassero a dimenticarli. Ha alimentato l’odio goccia dopo goccia.

Fondamentale nel successo del nazismo è stata la propaganda. Hitler fu rappresentato come salvatore della nazione dagli ebrei, causa di tutti i mali; come una sorta di individuo superiore, carismatico, in grado di iniziare e perseguire un glorioso cammino. Nel formare la propaganda e la struttura di condivisione e diffusione dell’ideologia nazista, il motore centrale fu Goebbels, abile stratega e grande comunicatore, che affinò la tecnica della persuasione, attraverso la ripetizione di slogan e incitamenti. Il nostro Paese ha agito seguendo i passi della Germania, specie nella propaganda. Alcune delle vignette che il Partito Nazionale Fascista diffondeva, viste con occhio poco attento, possono essere considerate quasi dell’innocente black humor (ad esempio, le vignette in cui è alimentato lo stereotipo dell’ebreo avido): se si riflette qualche istante in più, però, ci si rende conto che rappresentano il primo passo verso lo sterminio e che dalla risata è facile alimentare pregiudizi e manipolare il consenso del popolo.

Ma qual era il vero scopo di questa propaganda così attenta e mirata? Di mezzo non c’era soltanto il fanatismo, ma questioni geopolitiche. L’obiettivo di Hitler era espandersi in tutta Europa e aveva bisogno di un popolo caldo, infuriato, da poter sfruttare per i propri obiettivi. Un popolo da usare, in particolar modo, contro l’Unione Sovietica. Hitler non voleva che l’odio si sfogasse in modo disordinato: ne aveva bisogno per scagliarlo contro i russi e potersi espandere ad est. 

Chiunque manifestasse idee in contrasto al regime, era destinato alla deportazione o al confino: vivere il consenso, morire nel dissenso. 


Dopo aver ascoltato e appreso tutto questo, in ognuno di noi è sorta spontanea una domanda: ma gli altri Stati? Erano a conoscenza dell’Olocausto? 

Sì. Erano a conoscenza degli orrori che il nazismo perpetuava in Germania e in Polonia, delle deportazioni di massa, ma le vittime sono state considerate semplici effetti collaterali della guerra, un sacrificio necessario e inevitabile. Inoltre, perché ostacolare Hitler, che limitava e teneva a bada la Russia? Nessuno ha agito per impedire che la Shoah fosse portata a termine, per questo motivo, nel momento in cui commemoriamo le vittime del genocidio durante la Giornata della Memoria, o in qualsiasi altro momento, non serve a niente limitarsi a scagliare la propria rabbia verso l’immagine di Hitler e dei nazisti con la svastica cucita sulla manica della divisa. 


Bisogna porsi queste domande:
quanto è responsabile Hitler della Shoah? Quanto lo sono i cittadini comuni che non hanno avuto il coraggio di mettersi in pericolo per contrastare il nazismo? E quelli che nemmeno si rendevano pienamente conto di quello che stava accadendo? Ha senso parlare di vittime, carnefici ed eroi? Chi può essere considerato privo di responsabilità in questa fetta di storia? 

Nel nostro viaggio abbiamo visitato Auschwitz, il culmine del nostro percorso. Parlare della giornata al campo non è semplice. Vorrei dirvi che sono stata male, che ho sentito il magone passando tra i mucchi di scarpe, valigie e capelli conservati ad Auschwitz I, che ho pianto. Non è accaduto nulla di tutto questo. 

Ho provato curiosità. Quando mi sono ritrovata davanti alla scritta “Arbeit macht frei”, “Il lavoro rende liberi”, e ho visto l’ex caserma di Auschwitz I circondata dal filo spinato mi è sorta un’unica domanda: perché? All’improvviso è sparito tutto quello che avevo imparato. Ho percepito un grande vuoto dentro e le risposte razionali, le spiegazioni geopolitiche ed economiche, le ricostruzioni degli storici non mi sono più bastate. Umanamente non è possibile comprendere. 

Umanamente non c’è un perché. 

La visita a Birkenau è stata ancora più strana. Appena scesa dal pullman ho pensato: “E’ enorme”. Birkenau è un prato di cui non si vede la fine, circondato dal filo spinato, nel quale sorgono alcune baracche, quelle che i nazisti non sono riusciti a distruggere quando il campo è stato evacuato. Sono andate distrutte tutte le camere a gas e i forni crematori. Ho ascoltato per tutta la visita la guida in totale silenzio, e non parlo solo della mia voce. I miei pensieri erano inibiti. Ascoltavo e assimilavo, senza provare alcun tipo di emozione, continuando a camminare in mezzo al fango e a osservare apatica i resti dell’orrore nazista.

La visita si è conclusa davanti al monumento delle tombe, situato alla fine di ciò che è rimasto dei binari. La guida ci ha salutati e le nostre tutor ci hanno invitati a uscire da soli dal campo, a prenderci il tempo di cui avevamo bisogno per riflettere. Camminando in solitudine verso l’uscita del campo, il vuoto che avevo sentito nel petto per tutta la giornata è stato colmato dal sollievo. Non vedevo l’ora di andarmene e non per noia o stanchezza. Ho avvertito una sensazione di libertà, come mai accaduto nella mia vita. 

Ho pensato alla serata tranquilla che avrei trascorso in qualche bar a Cracovia, ai miei genitori che avrei riabbracciato di lì a pochi giorni, ai miei compagni a cui non vedevo l’ora di raccontare quello che avevo imparato; un milione di persone da Auschwitz non è uscito. Dietro quel numero ci sono storie e volti come i nostri, che, però, non hanno potuto camminare fuori dal campo, abbracciare la famiglia, incontrare gli amici. In quel momento mi sono sentita fortunata, nel senso più profondo e sincero del termine.

Non riuscivo però ad accettare l’apatia che avevo provato per tutta la durata della visita. Mi sentivo in colpa: che essere umano sono se non riesco ad emozionarmi guardando ciò che resta di uno sterminio? Il giorno dopo, però, ho fatto pace con me stessa. Ci siamo ritrovati, tutti e 47, con le nostre tutor, in una delle stanze dell’ostello, a parlare, rispondendo a una semplice domanda: “Come state?”. 

In quel momento ho trovato il tassello mancante: non ero l’unica a non aver provato nulla e non c’è niente di sbagliato o disumano. Succede e basta: il nostro valore non è commensurabile sulla base delle nostre emozioni. Credo che quella mattina sia valsa da sola tutto il viaggio. Ho percepito la bellezza di essere umani, di parlare, confrontarsi, ma soprattutto, ascoltarsi senza giudicarsi. 

Le dittature hanno un’altra arma: impedire alle persone il confronto. E alla fine ho pianto anch’io. 

Quanto è lontana la Shoah? Siamo responsabili dei campi di concentramento e del dolore che viene inflitto ad altri uomini in Paesi stranieri sotto dittatura? La nostra società sta costruendo basi apparentemente innocue simili a quelle che hanno portato al razzismo e alla discriminazione più spietata? O non c’è nulla da costruire, perché siamo già razzisti? Quali analogie ci sono tra passato e presente? L’unico modo utile per fare davvero memoria è comprendere il passato e acquisire gli strumenti per poter riflettere sul presente. 

Bisogna domandarsi se abbiamo davvero imparato qualcosa sul nostro passato oscuro. Alla commozione che proviamo pensando all’Olocausto dobbiamo accompagnare riflessione e informazione. Non possiamo ignorare ciò che accade ai giorni nostri, in Europa e nel mondo, e dobbiamo prenderci le nostre responsabilità. Capire che una feroce dittatura e lo sterminio di un popolo non nascono dal nulla e i primi segnali sono quasi sempre apparentemente innocui e insignificanti. L’odio affonda le radici poco alla volta. Forse non ci sarà un’altra Shoah. Forse non ci sarà un’altra Shoah intesa come sistema di deportazione e sterminio organizzato e sistematico come quello nazista, con strutture appositamente create, secondo tecniche scientifiche e un piano di tipo industriale, per distruggere una popolazione. Ma da tutto il resto siamo davvero salvi? 

“È una ben povera memoria quella che funziona solo all’indietro“.



Beatrice D’Auria

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